Francesca Tuscano
Salvatore Giunta: “Interferenze di segni e parole”_2014
Nel condurre la sua analisi sulla crisi del mondo moderno (in Salvezza e caduta dell’arte moderna, 1964) Giulio Carlo Argan si schierava apertamente a favore dell’arte “non rappresentativa”, rintracciandone, al di là dei differenti processi operativi, dei comuni denominatori come la più stretta relazione istauratasi tra i generi artistici, la concordanza tra atto critico e atto creativo e il consolidarsi di una coscienza sociale dell’arte. Poco più avanti, tuttavia, com’è noto, egli concludeva la sua “apologia del contemporaneo” abbracciando l’heideggeriano “essere per la morte” come unica soluzione concreta - un destino, come specificherà più tardi - per l’artista che intendesse opporsi all’alienante inautenticità della produzione industriale; con quest’ultimo incipit Argan finiva così per destituire definitivamente l’arte non solo dalla sua funzione sociale, ma anche, in fondo, dalla sua funzione fondativa dell’individualità.
Nell’opera di Salvatore Giunta, nelle sue sculture come nelle sue carte, è invece il respiro di una possibilità “salvifica” a pervadere la materia, che egli lavora con la purezza e la coerenza del filosofo, assumendo la riprogettazione dello spazio come principio di ricostruzione di un ordine interiore, recuperato attraverso un costante, quotidiano rapporto con l’invenzione formale; uno spirito, il suo, che si conserva anche nel dialogo con gli altri linguaggi dell’arte, compreso quello poetico, cui sovente s’ispira il suo lavoro, come nel caso di questa esposizione. Il riferimento alla poesia, come l’uso stesso della parola o dell’aforisma, non sono difatti un fatto nuovo nell’esperienza di Giunta, ma si affaccia nel suo percorso anche attraverso una serie di collaborazioni con poeti contemporanei, quali Clara Janes, Mario Lunetta, Francesco Muzzioli, Carla Vasio.
La serie di opere preparata per questa esposizione, dal titolo “Interferenze di segni e parole”, si presenta come una trasposizione in chiave visiva di sette poesie di Roberto Piperno, di cui Giunta racconta i passaggi fondamentali, ne coglie le immagini ricostruendo a partire dal verso una propria semantica della rappresentazione, senza tuttavia rinunciare ai nuclei fondamentali che caratterizzano la sua ricerca eststica. Il netto rifiuto della regolarità delle pure forme della geometria euclidea, l’innata propensione al dinamismo, la tendenza a rilevare la sostanziale incongruenza tra realtà fisica e realtà percettiva, sono in effetti tutti elementi che ritornano anche nella sua produzione su carta, in cui i fondamenti del Suprematismo maleviciano, l’idealistica tensione all’unità del Bauhuas e gli esiti dell’arte italiana degli anni Cinquanta e Sessanta vengono a coniugarsi in un linguaggio di grande rigore e chiarezza formale. È il caso ad esempio di Luoghi in cui l’eco dello Spazialismo si arricchisce di risonanze più intimamente esistenziali attraverso l’uso di elementi isolati, pesi ondeggianti su ideali orizzonti di quiete che risuonano come “in sentieri” nel silenzio, “senza ascolto né risposta”. La prevalenza dell’orizzontale resta costante anche nella parte superiore della composizione acquisendo qui le fattezze di frammenti lineari, lenti passaggi di ispirazione mondriana sospesi entro un’atmosfera atemporale.
Dotato di tutt’altra libertà è invece il segno incisivo di Color turchino, lembo sfuggente di cielo opposto al nero piano frastagliato che sembra ritrarre il profilo di un paesaggio con la stessa sintesi ed essenzialità di un haiku orientale. Nel guizzo intenso dell’azzurro riaffiora la memoria del dinamismo delle sue strutture plastiche, tese sino al limite dell’equilibrio, come ora il segno alla leggerezza dell’immaginario.
Più ispirate alla lezione suprematista sono invece altre due opere della serie, Nel deserto e Fili. Nella prima Giunta affronta il tema dedicando al bianco la sua composizione, colore non colore, le cui molteplici possibilità d’applicazione son rese dalle differenti proprietà delle carte sovrapposte, dalle loro qualità tattili e visive, dalle variazioni sensibili alle delicate tonalità del chiaroscuro, che lasciano immaginare infiniti possibili percorsi nella “luce flebile dell’alba” in cui l’anima s’inoltra nel suo cammino d’oltre. Su questo tessuto di percorsi e sentieri, quasi in controrilievo, si dispongono altri piani, protagonisti di un’operazione che mette in crisi la forma e la reinventa, deviandone il senso originario verso altre inattese letture.
Tratta dall’omonimo componimento di Piperno, Fili è infine l’opera in cui più si ravvisa una continuità con la sua ricerca plastica, a dimostrazione della straordinaria capacità di Giunta di dar luogo a ricorrenti interferenze tra i generi, ora convogliando, entro un discorso estetico improntato sulla bidimensione, i valori che caratterizzano il suo linguaggio plastico, ora dando consistenza volumetrica agli elementi propri del disegno. Il riferimento alla geometria suprematista, si configura qui quale terreno iniziale per un’ulteriore riflessione sulla forma, fatta di sovrapposizioni, slittamenti, metamorfiche proiezioni. Il decentramento degli assi diagonali, che costituisce uno dei perni fondamentali del lavoro di Giunta, si configura difatti come il frutto di una rotazione in progressione in cerca di spaesanti equilibri, le cui direttrici si estendono come raggi anche al di là fuori del perimetro finito della forma, nel terreno dell’inaspettato, in cui anche l’assenza diviene presenza, ombra di luce legata alla materia in un indissolubile binomio poetico. Filo che sfugge anch’esso alle gabbie anguste della quotidianità, la marcatura della linea retta taglia la forma e la completa, proiettandosi in una possibilità di esistenza altra propria del poeta come dell’artista visivo, aperta dall’imprevisto slancio del momento creativo.
in Arsetfuror, n.35, 2013
Salvatore Giunta e Grazia Sernia: tra orizzonti di segni e luce_2016
In un articolo del 2013, scritto in occasione di una mostra di alcune sue carte realizzate sulle poesie di Roberto Piperno, mettevo in risalto l’intravvedersi di una “possibilità salvifica” nelle opere di Salvatore Giunta rintracciabile nella continua armonizzazione di equilibri instabili, nella presenza di una ratio – probabilmente legata a quella “riprogettazione della realtà” che è nota tipica del suo operare – in cui elementi e forme si combinano creando un contesto in sé perfettamente funzionale. Sull’altro fronte, distante per tecnica, ma analoga, per molti versi, negli esiti e nelle ispirazioni, l’opera di Grazia Sernia recupera il genere dell’incisione per farne “instrumento” per un costante colloquio con l’alterità, che è pretesto e insieme scenario dell’inverarsi di “altri mondi”, origine condivisa della creazione artistica. Che si considerino i materiali scelti o le tendenze linguistiche che caratterizzano alcune fasi del loro lavoro, le poetiche di Grazia Sernia e di Salvatore Giunta arrivano a punti di congiunzione interessanti, perseguendo, soprattutto in alcuni momenti del loro percorso artistico, quasi le stesse finalità. Il tramite, in ogni caso, sembra essere quello di un attraversamento che avviene, per Giunta, mediante un rapporto diretto con i problemi del reale, per la Sernia in maniera più mediata, ma comunque sostenuta da una produttività vividamente ricettiva, in cui la forma geometrica si determina sempre più quale “campo” entro cui definire luoghi in cui lo sguardo abita e respira. L’iniziale formazione in architettura, che accomuna l’esperienza di entrambi gli artisti, certo dovette incidere – come forse incide tuttora – sull’impostazione progettuale del loro lavoro, come anche sulla spiccata tendenza a superare quel limes ideale che separa un genere artistico dall’altro, per compiere felici esplorazioni interlinguistiche e interazioni ora meditate ora quale spontanea esternazione di uno spirito in ricerca. E così, se Grazia Sernia arriva ad attribuire plasticità alla grafica montando le lastre su supporti lignei, Salvatore, di converso, si orienta verso un graduale alleggerimento della materia plastica per sintetizzare vettori, direzioni e pesi delle sue sculture in “movimenti minimi” espressi mediante il ricorso all’elemento grafico per antonomasia, il segno. Questa progressiva riduzione della composizione, sintomo di una ricerca che mira all’essenza attraverso l’essenzialità della forma, caratterizza anche gli ultimi lavori di Grazia Sernia che, in opposizione ai vorticosi cromatismi della serie dedicata alle celebri Città di Calvino, affida alle profondità e alla nitidezza degli azzurri, dalle sempre diverse variazioni tonali, quella risonanza poetica, quel respiro interiore che la forma dell’haiku le trasmette, abbandonando definitivamente la componente descrittiva, tipica della sua precedente produzione. Nelle sue opere più recenti – in cui l’artista sembra in parte recuperare, in una chiave più ponderata, l’interesse per quel moltiplicarsi della forma geometrica di cui i suoi monocromi “teatri” costituiscono un’anticipazione - il linguaggio poetico si asciuga e l’organicismo e la narratività del periodo precedente mutano in forme isolate come icone nello spazio bianco, in misurato colloquio con l’apparire appena di segni impressi a secco, indicatori corsivi di quel vitalismo che permea la natura tutta, evocazione di quelle altezze spirituali che la forma conquista solo aspirando all’essenza. Piacevole memoria di un “essere” senza tempo, il bianco diviene più in là, in particolare nelle opere ispirate alla sequenza di Fibonacci, pausa necessaria tra le “marmoree” configurazioni delle nebulose o le trasposizioni visive di armoniche sequenze matematico-musicali, tra le complesse geometrie dell’universo. In questo meditato parlare della forma, il bianco è anch’esso discorso che conserva la bellezza eterea d’un sussurro, di un’intima continuità tra l’uomo e le cose.
L’animosità del segno ritmico, è comune anche a molta della produzione di Salvatore, all’interno della quale esso interviene a segnalare, con i suoi mutamenti, l’esordio di una diversa fase stilistica. Dalla serie delle sfere, sostenute da spaesanti andamenti di curve melodiche - vero elemento plastico con cui Giunta ridisegna una sorta di “calligrafia dello spazio”- sino ai più recenti rilievi,. in cui la linea si cela con “illusionistica opera di intelletto” tra gli scorci di geometrie maleviciane, il segno è protagonista delle sue opere, ne segue le istanze e con esse si trasmuta, mentre la materia mano a mano si stempera nella leggerezza della carta o nel ricorso a materiali dotati di una consistenza sempre meno invadente, quasi “senza peso”. Nel districarsi di questo processo, le opere di Giunta sembrano appartenere contemporaneamente a due mondi, quello lirico e minimale dell’arte orientale mediato una quasi impercettibile declinazione dadaista, che si dichiara nei perimetri dissonanti delle geometrie e nella ricerca di sempre nuove combinazioni plastiche e deformazioni spaziali, condotte talvolta con teatrale ironia. Nei rilievi del 2012, realizzati interamente con cartone dipinto, lo spazio s’infrange in piani dinamici, in fratture-tagli che irrompono nello spazio lineare ricostruendone gli equilibri interni in deserti di luce, chiamati “a porre qui” l’altrove. Nell’opera più recente, il bianco è invece complice di un “binomio minimalista” che rimanda all’eterna opposizione di luce ed ombra, ambiguità e verità, che nella ciclicità dell’esistenza – come nella resa quasi speculare della composizione –ritornano l’una nell’altra. Su di essi, il segno brillante, come pioggia radente, ne attraversa le irreali dimensioni, oltremondo di ribaltamenti e fissità infrante con filosofico distacco, partecipi in fondo dello stesso “gioco delle parti”, nostalgia dell’essere.
in Verso il bianco. Giunta-Sernia, Presentazione della mostra, Galleria Arte e Pensieri, Roma, a cura di F. Tuscano
Il razionalismo zen di Salvatore Giunta_2018
Nel descrivere la produzione grafica di Salvatore Giunta, non si può non tener conto di alcuni elementi, sovente individuati da critici e poeti, che si collegano, direi inscindibilmente, al lavoro dei dipinti e delle sculture. Tendenza ad un’insita monumentalità della composizione, dinamismo di matrice maleviciana e rigore “costruttivista”, irriverente conversione di equilibri in disequilibri formali (o in “equilibri impossibili”) ed in ultimo, la centralità della luce che, come a ragione notava Mario Lunetta, è nella sua opera “presenza spaziale pura e netta”[1]. Piuttosto che a un genere, a uno specifico ambito estetico, è difatti a questa dimensione di assoluto dominio dello spazio che Giunta sembra far riferimento nella sua ricerca, in cui l’articolazione delle forme è conseguenza di una attenta e meditata progettazione, di un’architettura quasi, dal valore plastico o pittorico. Tempo fa, affrontando uno dei numerosi scritti di Le Corbusier, mi trovai di fronte a questa sua definizione: “l’Architettura E’ PER COMMUOVERE […] quando certi rapporti sono raggiunti, siamo presi dall’opera. Architettura è ‘rapporto’, è ‘pura creazione dello spirito’”[2]. E ancora: “A coloro che, assorti nel problema della ‘macchina da abitare’, dichiaravano: ‘l’architettura significa servire’, abbiamo risposto: ‘l’architettura significa commuovere’. E siamo stati accusati di essere dei ‘poeti’, con disprezzo”[3].
Capacità di commuovere attraverso lo studio di particolari relazioni, entro un ordine dotato di una specificità che possiamo dire “poetica”: tre aspetti che, insieme al binomio di spazio e realtà, sembrano intervenire, chiaramente al di là degli esiti formali, anche in questo caso.
Per Salvatore Giunta la realtà è spazio. Tutto ciò che in esso avviene altro non è che il frutto di particolari relazioni instaurantesi tra lo spazio e i suoi elementi (piani, segmenti, sfere), relazioni descritte nella continuità della mutevolezza dinamica offerta da un punto di vista, più tecnicamente, da una prospettiva. E l’ombra – altro tema ricorrente, che giunge ad avere quasi concretezza fisica nelle sue “sculture ambientali” – è anch’essa il risultato di una prospettiva generatasi dalle intenzioni, una proiezione naturale dell’ente-uomo tra prolungamento del sé e alba perpetrata di un nuovo cominciamento. Nell’ombra, lo spazio stesso è sostanza formante un’entità nuova, eco di un divenire che partecipa dello specchio-spettro dell’ente originario da cui esso deriva e che contemporaneamente nasce dallo spazio, lo contiene, si identifica come una sua porzione.
Nelle sue grafiche l’ombra non scompare, diviene piuttosto lo strumento, la proiezione iniziale con cui costruire ora il piano ora il suo riflesso, ormai senza limiti, che si diffonde nello spazio, come nelle pitture e nelle serie più recenti. In “Bianco strutturato” l’idea dell’ombra come superficie che indaga lo spazio incontrandone la tridimensionalità, si configura come un piano dilatato, aperto, memoria in parte delle geometrie deformanti o dei rilievi, spesso realizzati in carta o cartone, della sua precedente produzione cui in parte accennano i rossi obliqui di “Divergenza”. Nella serie degli “Spazi dialoganti” torna invece il piano come varco, dalle cui fenditure nascono orizzonti, bianchi pieni di possibilità che richiamano il brulicare delle superfici polimateriche di alcune sculture a muro del 2011. La ricorrenza alla tecnica della stampa a secco, talvolta utilizzata simultaneamente all’acquaforte o all’acquatinta, interviene spesso ad instaurare un dialogo continuato tra grafica e scultura, attribuendo a una materia, come la carta votata quasi alla bidimensionalità, la forza plastica del rilievo; una necessità che trova ulteriore manifestazione, secondo una modalità quasi speculare, nella scelta della tipologia della scultura a muro, contenuta concessione alla tridimensione cui si associa talvolta l’evidente plasticità del segno, provocatoria incursione nel quotidiano.
Ed è proprio il segno nella sua versione minimale e più asciutta, il protagonista delle sue opere dal 2009. Proiettato in rotazioni colte in ritmiche sequenze sul foglio, il segno attraversa lo spazio con vaganti evoluzioni o cadute che sfidano con la gravità la leggerezza dei segmenti, tanto che ogni opera assume la qualità di una narrazione isolata, del racconto di una individualità espressa unicamente mediante lo studio di rapporti formali. Questo distacco funzionale alla costruzione della forma, che l’artista ottiene operando quasi una sospensione simile ad un’epochè, rappresenta forse il punto d’incontro nella poetica di Salvatore tra lo spirito cartesiano del razionalismo[4] e quella visione quasi zen che permea la sua ricerca estetica, non solo nei termini di una riduzione formale, ma soprattutto nella cercata riconciliazione tra individuo e cosmo, tra origine e tempo, tra materia e luce. E nel cercare, commuoversi, forse, di questa luce, cromia aurorale che tutto pervade, sino quasi alla dissoluzione, all’azzeramento del sé.
“Gli occhi sono fatti per vedere le forme nella luce”, scriveva ancora Le Corbusier. Senza luce la forma non giungerebbe a piena visibilità, senza forma la luce sarebbe un tutto indistinto, uno spazio assoluto in attesa di compiersi attraverso il suo contrario. In questo colloquio è forse da cogliere l’orizzonte misterico cui guarda la ricerca di Salvatore Giunta: luce che inonda il vuoto creando lo spazio, spazio in cui dare vita alla forma e, con l’unicità di ogni particolarità umana, al linguaggio, quel saper parlare nell’intimità di una visione tutta interiore, che sempre si offre come poesia.
[1] M. LUNETTA, Salvatore Giunta: la fermezza del polso, in Tagli di luce e nuovi spazi, 11-22 febbraio 2010, Stamperia del Tevere, Roma (brochure).
[2] P. CERRI – P. NICOLIN (a cura di), Verso una Architettura di Le Corbusier, Longanesi, Milano, 2003, p. 9.
[3] Ivi, p. XXV.
[4] Cfr. G. C. ARGAN – A. B. OLIVA, L’Arte moderna, 1770-1970. L’Arte oltre il Duemila, Sansoni, Milano, 2001, p. 139.
in Il segno e lo spazio, Presentazione della mostra, Linea arte contemporanea, Roma, a cura di F. Tuscano
Dalla materia allo spazio: libri d’artista di Salvatore Giunta nella mostra “Voli pindarici”_2018
In un convegno del 2004 si definiva il libro d’artista come “il modo di esprimere qualcosa che non si può esprimere in altro modo”. Ed in effetti da Marinetti a Depero e ancora nelle più vicine sperimentazioni degli anni Sessanta, il libro d’artista si configura come un genere a sé, un oggetto d’arte a tutto tondo in cui la forma-libro diviene uno “spazio da agire”, diretta espressione di quell’arbitrarietà del fare artistico cui si legano molte delle esperienze linguistiche del secolo scorso.
Il libro inteso come spazio è anche uno dei concetti di fondo dei libri d’artista di Salvatore Giunta, cui è dedicata la mostra “Voli pindarici” presso la Galleria La Roggia di Pordenone, a cura di Bruna Condoleo. Principalmente scultore, ma dedito anche alla grafica, alla pittura, all’istallazione, Giunta inizia a realizzare libri d’artista negli anni Ottanta, per diverse edizioni. Sovente ispirati a testi letterari e poetici o corredati da scritti o riflessioni dell’artista stesso, i suoi libri d’artista sono come “scritture-compendio” che attraversano, talvolta anticipandole, le tendenze che si esprimeranno pienamente nel suo lavoro pittorico o plastico-istallativo.
Per le edizioni “Arte in” realizza nel 1981 El Gabal, un’opera libro collettiva in cui il ricorso a materiali poveri, principalmente sabbie, corde, spaghi, riconduce lo stile alla fase di ricerca informale che Giunta affronta proprio in quegli anni in pittura. Ispirato all’Eliogabalo di Antonin Artaud, El Gabal riporta la prospettiva anarchica, offerta dall’autore francese come complementare teoretico necessario al concetto di “crudeltà”, entro la sfera di una “intima carnalità”, di una pelle ricostituitasi quasi sulla pagina con elementi poveri, primari, statura primordiale dell’identità che si fa corpo e carne senza alcune mediazione rappresentativa. Di poco precedente è invece “Rotazioni”, del 1980.
Appartenente alle stesse edizioni, “Rotazioni” annuncia i nuclei fondamentali del linguaggio di Salvatore Giunta, oscillante tra un’indagine costante sui materiali e sullo studio formale, sempre caratterizzato da proiezioni e scorci, da una dinamica permanentemente in colloquio con lo spazio. L’aspetto filiforme della canapa, memoria quasi di una femminilità anelante ad una libertà soltanto contemplata – la Lilith del testo che introduce lo sviluppo formale -, incarnazione quasi di una nostalgia poetica, si fonde con il ritmico viaggiare di forme-lune rotanti, nella cui occasionale specularità ritorna il tema del doppio, del perenne corteggiarsi di nascondimento e luce, motivo che Giunta non abbandonerà mai e che anzi diviene centrale in molta parte della sua produzione successiva.
Ad anticipare un altro settore della ricerca di Giunta, dedicato all’esplorazione del segno, che giungerà fino ai recenti “segni vaganti”, è “Linfa” del 1982. Nelle pagine di quest’opera libro è in effetti tutto un colloquio tra segni minimi, ora posti in formazioni speculari ora in cerchi di solitudini celesti in cui immergersi e viaggiare, come tra vedute aeree, binomi all’unisono in voli condivisi nell’azzurro mare di uno sguardo, mondi-cieli, percorsi dell’immaginario. La carta dalle fattezze cangianti e porose, di una ruvidezza appena accennata, è preludio di scenari sognanti e sognati di evanescenze figlie di una leggerezza ariosa che dolcemente si sottrae alla gravità della terra.
Tra le sperimentazioni successive più interessanti, sempre nell’ambito del libro d’artista, rientra la serie dei “libri d’acqua”. Da “Acqua Fluvialis”, che apre il ciclo nel 2003, al “Trittico dell’acquario erotico” dello stesso periodo, sino al più recente “Disseminazioni”, l’elemento dell’acqua, racchiusa in pagine plastificate è il magma fluido, la sostanza mobile entro cui si muovono lettere libere di “parole potenziali” od oggetti prelevati dalla realtà, con un sottile rimando ironico; tra le trasparenze delle pagine, in cui il vagare dell’oggetto è dato ricorrente, quasi ludico, della composizione, l’acqua altro non è che pretesto per svincolarsi dalla forma affidando il contenuto ad “oggetti parlanti”, perno dello sviluppo narrativo.
A recuperare invece la prospettiva di una forma intesa nella sua accezione più costruttiva, sono invece i libri d’arte degli ultimi vent’anni, realizzati spesso in collaborazione con poeti contemporanei. Da un haiku di Carla Vasio, “Il tempo in bilico”, del 2010, utilizza piani che come quinte teatrali si aprono in successione, soprapponendo alla naturale geometria della pagina una “geometria altra” nata da rotazioni e proiezioni, la cui dinamica crea la narrazione. L’idea di libro come teatro-pagina in cui segni aperti come fenditure, asole sul vuoto scenico, su un oltre insondato, unitamente al binomio del bianco e nero, riduzione essenziale del dato cromatico, caratterizzano anche i libri “Infuturarsi” del 2015, e “Quinte di libro” del 2017. Tra gli ultimi lavori è invece “Sulla soglia dell’ombra” del 2018, contenente un haiku di Francesco Tarquini. Completamente incentrato sul rapporto tra oscurità e luce, “Sulla soglia dell’ombra” si muove sul limite ultimo di questa relazione, tra il buio-origine, azione in potenza della forma, e la linea che fende, come bianco-raggio, il vuoto da cui essa stessa proviene, in una vicendevole compenetrazione, eterno gioco di orizzonti nuovi.
in Segno, n.269, sett./nov. 2018