SALVATORE GIUNTA ARTE

Mara De Mercurio

I bronzetti di Salvatore Giunta

1972

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E' per me un piacere e un onore presentare a questa sua prima mostra romana il giovane scultore Salvatore Giunta. Innanzi tutto sento il bisogno di ringraziarlo per avermi restituito il piacere della concretezza, dell'immaginazione, del sentimento, e, assieme, la consapevolezza, della solitudine e dell'agglomerato, come può soltanto la scultura. Diceva Bertrand Russel che il lucido pessimismo dell'intelligenza ci restituisce il vero piacere delle cose; sotto l'apparenza delle cose, c'é il significato delle cose e la loro ineguagliabile affascinante inutilità. Quando vidi la mostra di Giacometti a Villa Medici nell'ottobre del '72, (in questa città odiosissima e amabilissima), ho provato la medesima emozione che il suggerimento ad personam di Giunta suggerisce oggi, anno di grazia 1972, alla nostra insensibilità coriacea di individui del duemila. Il piacere della scultura. Il piacere della materia. L'emozione violenta, sconvolgente, forse inutile, di una prima mostra a cui si è molto guardato con sincera partecipazione, con affetto. Il caso «umano» di Giunta, così giovane e già così «lucidamente pessimista» sul significato dell'uomo e del suo destino, mi porta ad anni addietro, a certi colloqui amari eppure amorosissimi sull'uomo che facemmo con Mafai. Era possibile un esame di coscienza collettivo? Era possibile una nostra re­ surrezione? Così oggi. Ci parliamo con Giunta, e cerco di farmi dire a cosa miri il suo universo popolato di frammenti totemistici e di allusioni all'uomo metallizzato. Forse non ci capiamo. Ed è per questo che sembra invalicabile la possibilità di un dialogo costruttivo, oggi, tra ciò che l'artista è condizionato a dire e la nostra posizione di receptores maleducati e provvisori.

Dove l'uomo universale di Leonardo? E' una struttura inserita in un cerchio che Io blocca e lo strangola senza che egli abbia voglia di libertà e di resurrezione? (vedi la scultura Uomo). Dall'esilio, dalle carceri, dalle città del nord, dalle fabbriche: come torna quella piccola cosa che è nostro fratello? Torna legato. E' morto, ma torna con gli onori delle armi. Ecco l'uomo legato, ecco il ritorno in patria, ecco la matricola K ∞. Salve, signori della restaurazione. La guerra e la morte siete voi. Non ci sarà più bisogno di fare la guerra. La guerra è in voi. Noi viviamo la guerra. L'uomo è un lavoro, inutile, stanco. Può costruirsi delle illusioni letterarie, come nel morbido e sensuale ritorno alle origini: ma,di lui ciò che importa è il simbolo-stendardo, l'alabarda, l'agglomerato a cui è negata la perfetta coesione del meccanismo trainante, l'uomo totem (uno scacco? un birillo? una pedina?); oppure, l'angoscia dell'unisex suggerito all'upim o il grido di disperazione del feticcio occidentale, il feticcio dell'europa unita che la classe dirigente ci ha programmato al tremila. Ma l'uomo muore, e l'artista con lui, e noi con l'artista di cui sentiamo la consolante inutilità lucidamente espressa in una continua provocazione oggettuale.

 

in I bronzetti di Salvatore Giunta, Presentazione della mostra, Il Traliccio, Roma, 1972

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